Gazebo Penguins - Legna




Esordire in questa recensione su Legna, l’ultimo disco dei Gazebo Penguins, dicendo che ti arriva dritto come una “legnata” in testa potrebbe anche far sorridere. Per il gioco di parole o per quella divertente immagine allegorica che potrebbe venire alla mente, di tanti piccoli pinguini armati di CD che ci assaltano e ci picchiano duro.
Ebbene sì, può far ridere ma solo per un istante. Dopo aver ascoltato la meraviglia che suscita questo disco le riflessioni saranno sicuramente altre, il desiderio di vederli dal vivo soprattutto.

Inatteso, inaspettato, vivo e vitale, un concentrato strettissimo di rock e suoi derivati che piomba giù dal nulla con un’energia e una forza devastante.
Si potrebbe anche dire che sia senza fronzoli, e che Andrea, Pietro e Gabriele, in arte Sollo, Piter e Capra, questo trio della bella provincia emiliana abbiano puntato sull’essenzialità, sulla semplicità e sulla schiettezza. Ma così dicendo si farebbe loro un torto.
Sì, perché in questo disco, che all’apparenza può sembrarci ruvido e muscoloso, s’intrecciano senza dubbio le migliori e più raffinate tradizioni e derivazioni rock, dalla New Wave al Lo-fi noise, dal Punk all’Hard core.
Un mix esplosivo, ruggente, altamente infiammabile di alternative rock che stride violentemente con le ultime e più chiacchierate tendenze musicali in ballo sulla scena indipendente italiana.

Il rock, fatto come una volta, come quello che non si sentiva più da un po’. Fatto bene, con criterio e con passione. Con la chitarra che s’infiamma, che si sdoppia, che si moltiplica. Con il basso pesante e profondo, distorto e sempre presente. Con la batteria che tiene ritmiche devastanti lasciandoci sospesi e avvinti. Con la voce e i cori che si alternano in un continuo di trasparenza e urla squarciate e dirompenti. Che bellezza!
Ad un primo ascolto si potrebbe perdere l’orientamento. Ma è questione di attimi: “ah! si, ok! va tutto bene. Siamo in Italia e c’è ancora qualcuno che suona il rock alternativo come si deve!”.

Il resto è una scoperta continua. Come quei dischi che più li ascolti e più ti piacciono. Più li ascolti e più ci senti cose fantastiche.

Come si diceva prima, le fonti d’ispirazione sono parecchie e tutte ben riconoscibili ed individuabili. Ed è un piacere riscontrarle negli otto brani del disco.
Non ci sono scopiazzature né tantomeno eccessive ridondanze, ma soltanto dei gradevoli richiami che ci fanno sorridere di gusto perché sprigionano tutta la personalità e la maturità di un trio dalle enormi potenzialità. Inoltre i nostri Penguins sono davvero pregevoli sia nel gusto per i suoni che nello stile compositivo.

Il primo brano di Legna s’intitola Il tram delle 6. E migliore apertura non potevano trovarla. Accordi acidi e metallici in apertura sembrano voler copiare il rumore di una motosega, forse quella in primo piano sulla copertina dell’album. Ma è solo l’attacco. Un respiro ed esplode il brano. E’ un incendio, a tratti noise e a tratti psichedelico in cui si alternano spunti post punk e lo-fi. La mescolanza di colori, di timbri è pertinente a tutte le scene musicali sopracitate e si evolve continuamente con rallentamenti improvvisi e impennate che sfociano in un finale dirompente.
Una voce ripete “Ho perso il tram delle 6…non credo che tornerò …” , e si ha tutta l’impressione che perdere quel tram non sia stata poi una sfortuna.

Segue Dettato, una fulminea svisata in chiave post punk. Lineare, diretta, giocata più che altro su ritmiche cangianti e armonie che si sovrappongono a formare un quadro che ci ricorda molto sonorità noise e post-grunge di stampo europeo.
Il rimprovero sembra essere quello di aver perso confidenza con la grammatica: “Odio i refusi sui libri nuovi e quando abusi di esclamativi… gli accenti storti sui perché, gli apostrofi sul verbo ‘è’… ”. Ma in verità sembra più essere l’accettazione di una condizione esistenziale.

Senza di te e il terzo brano dell’album. Una canzone dalle sonorità Garage Rock. Un’intro di chitarre gonfie di distorsioni rimarca quello che è già il ritornello: “senza di te…ho perso un po’ di ilarità, berrò di più per annegare la città”. Arpeggi melodici, taglienti e malinconici si contrappongono invece ad un cantato forzatamente ironico, che ci racconta una storia che appartiene ad un tempo passato, carica di nostalgia: “…ho ritrovato quel disegno in cui dormivi stesa al sole, dentro alla cesta delle robe inutili che di buttarlo non ho mai avuto il cuore…”.

Siamo già coinvolti. Ed ecco il quarto brano dal titolo Frate Indovino. Il più controverso tra quelli appena ascoltati. La parte musicale mostra due facce. Una prima parte più rockabilly ed un testo che ci ricorda il l’incedere del tempo: “Il calendario non aspetta mai. Frate Indovino non aspetta mai”.
Un intermezzo strumentale intenso e vibrante e siamo di nuovo dentro le sonorità dell’album. Il ritmo incalza, diventa ossessivo e sostiene un cantato incessante che ripete una preghiera, un’invocazione alla clemenza: “Settanta volte mi perdonerai, settanta volte sette tu lo farai, per tutto il tempo perso in autodafé, per tutto il tempo che non tornerà mai”.

Giro di boa. Il quinto brano è Troppo facile. Riff sovrapposti, momentaneamente leggeri, lasciano spazio a una batteria dinamica e irrequieta, scalciante. Siamo ipnotizzati. Cresce la velocità e la sensazione che qualcosa stia per scoppiare. E’ una tensione continua e crescente, smorzata appena dal cantato che si libera, si apre in constatazioni necessarie: “Ad esser sempre stanchi non cambieremo mai. Scappando dai tramonti non cambieremo mai. È facile, è troppo facile sorridere d’estate. È facile, è troppo facile non scegliere per niente”. Il finale è deflagrante.

E siamo al pezzo che più di tutti apre scenari su scenari. Siamo infatti al cospetto della sesta traccia dal titolo Ci mancherà. Un brano ricco di strutture, per nulla lineare, complesso perché ripieno di parti che s’incastrano tra loro magicamente spostandoci di attimo in attimo da uno stile ad un altro. Effetti noise e “riffoni” selvaggi accostati a pennellate dance che si trasformano in rimembranze psycho-metalliche.
Il testo invece è in linea con quanto abbiamo già ascoltato. Un velo di malinconica nostalgia. I ricordi che sembrano sfuggire e la volontà di congelarli nel tempo: “Vorrei sentirti più vicino, fantasma o partigiano, ma niente mi parla di te…..Davanti a un cippo o ad un altare mi sembra di sparire del freddo che hai preso per me”.

Settimo brano. Cinghiale. Devastante. Un urlo, un graffio, una legnata dritta allo stomaco. Lo Stoner galoppante per parlarci di quanto sia dura cogliere la giusta prospettiva: “Non metto a fuoco la vita, guardo sempre in basso”.

Ottavo e ultimo brano di questo disco che ci ha lasciato assolutamente stupiti compiaciuti. 300 lire e le valutazioni che si possono nascondere dentro un salvadanaio: “Domenica 3 gennaio ho rotto il salvadanaio di quando avevo la tua età. Tra i resti di porcellana la mano mi sanguinava e raccoglievo 300 lire.
I ricordi si annebbiano un po’. Se aspetti mi ricorderò”.
Quest’ultima canzone chiude i conti, chiarisce ancora una volta certe posizioni e definisce un suono che scalda, che suda e trasuda una tensione e una suspance che ingloba tutte le caratteristiche del rock eccellente. Fatto col cuore e coi polmoni. Denso di sensazioni buone. Fresco e mai stantio. Presente a se stesso e introspettivo. Che si lascia ascoltare, che ci lascia riflettere e godere.
Il Rock insomma come quello di una volta.

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